di Marco Maria Freddi
Ci sono momenti in cui la politica deve rinunciare a portare una bandiera e avere il coraggio di concentrarsi sul soggetto del suo impegno, che nel caso della discussione in Commissione Consiliare Welfare riguardava i poveri: persone fragili che, per vari motivi, vivono a Ponte Nord, all’ex-Scalo Merci o alla Casa Verde.
Ci sono momenti in cui la memoria di personaggi che hanno segnato la città, come Mario Tommasini, la cui priorità è stata quella di non lasciare indietro nessuno, si fa corpo della responsabilità di chiunque abbia a cuore la sorte degli altri. Se “Sulla Soglia” rimangono fuori tutti coloro che non sono in grado di “autodeterminarsi”, e per le istituzioni, i media o la politica è normale che rimangono fuori senza essere accompagnati in un percorso, significa che c’è un problema, un problema che non può essere ignorato, prima ancora che dai tecnici o dalle associazioni e organizzazioni del terzo settore che rispondono a regole e schemi, dalla politica.
Il messaggio di apertura e chiusura del Presidente di Commissione Marco Boschini è stato molto chiaro: la denuncia della morte di Miloud Mouloud (un mese dopo, all’inizio di febbraio, un altro cadavere è stato ritrovato in città, ma di questa morte non è stata data notizia) e l’inaccettabile realtà di 265 persone senza fissa dimora a Parma sono qualcosa che non possiamo pensare essere normale. Dobbiamo auspicare un cambiamento radicale, con più impegno, flessibilità e trasparenza, per soluzioni concrete e strutturali.
Proprio perché Parma è la città che non vuole lasciare indietro nessuno, è fondamentale operare con trasparenza sui numeri delle persone coinvolte nella Commissione e, per rispondere all’impegno assunto pubblicamente lo scorso 24 gennaio dagli assessori Ettore Brianti e Francesco De Vanna, la città deve sapere quale soluzione è stata trovata per le persone identificate (sommando Ponte Nord, ex-Scalo Merci e Casa Verde circa cinquanta persone) cui è stata promessa una ricollocazione all’interno della nostra città. La settimana promessa per fornire risposte è già trascorsa, ma come sappiamo, i tempi si dilatano sempre. Questo non è un problema, ma lo sarebbe se il “problema” venisse semplicemente spostato altrove, senza offrire le soluzioni promesse.
La parola che più mi ha colpito, ripetutamente pronunciata da chi costruisce progetti o gestisce i principali servizi alle povertà, è “autodeterminazione”. La stessa parola che, da sempre, chi come me si definisce libertario la utilizza in tema di diritto al divorzio, all’aborto, alla procreazione medicalmente assistita, alla gestazione per altri, al suicidio assistito o all’eutanasia, poiché questi diritti sono frutto di una decisione libera, consapevole e informata, in sintesi, autodeterminata. Mi domando, però, quanta autodeterminazione possa avere una persona povera e fragile, spesso affetta da disagi mentali o dipendenze da sostanze, e se questa possa essere paragonata a quella delle persone non svantaggiate, i cosiddetti “cittadini normali”.
Mi chiedo se gli operatori sociali dell’Amministrazione Comunale, dei servizi psichiatrici territoriali o delle associazioni del terzo settore vedessero bambine e bambini o disabili con sindrome di Down vivere per strada, applicherebbero la stessa regola dell’“autodeterminazione” come nel caso degli adulti fragili senza fissa dimora.
Mio nonno, socialista, avrebbe definito la parola “autodeterminazione” applicata ai poveri come la chiave per liberarsi dai problemi e liberare la coscienza.
Credo sia importante distinguere gli interventi alla Commissione dei soggetti istituzionali, di chi costruisce progetti, da quelli dei politici che “guidano” gli uffici e i gestori dei servizi a cui l’Amministrazione affida questi compiti. Accanto a questi, ci sono stati anche gli interventi di politici che sembrano non conoscere ciò che accade realmente, ma applaudono a tutto ciò che sembra buono e di bandiera, senza mai porsi la questione della responsabilità della vigilanza. La responsabilità non è solo degli “uffici”, ma anche della politica, che deve verificare che la retorica non diventi la peggior nemica delle persone a cui la Commissione si è rivolta: i più fragili della città, in poveri tra i poveri.
Come già scritto in altre mie riflessioni, Parma è da trent’anni ai vertici per la quantità e qualità dei servizi erogati alla persona. Dalla prima sindacatura Ubaldi in poi, escludendo il breve periodo della sindacatura Vignali e le iniziative di welfare delle devote religiose di destra e di “Quoziente Parma”, Parma è un esempio in tutta Italia per le buone pratiche del welfare, pratiche che si sono adattate ai tempi. Sappiamo però, che il mondo di chi vive per strada è composito. Ci sono povertà e povertà, e quelle dei ragazzi che, pur avendo un lavoro, non trovano una casa in affitto, o del padre di famiglia che ha perso il lavoro e vive in auto con moglie e figli, sono ben diverse da quelle di chi è afflitto da disagi mentali e dipendenze, le persone che hanno perso tutto a partire dalla loro identità.
Tutti i progetti di Housing First, case popolari, RSA e comunità protette, così come quelli di co-housing sociale, case della salute o assegnazione di medici di famiglia, sono soluzioni destinate a persone in grado di autodeterminarsi. Chi invece non può farlo – a meno che non si consideri davvero tutti coloro che sono in questa condizione persone manipolatrici o intenzionalmente rifiutanti qualsiasi aiuto – ha bisogno di progetti personalizzati, complessi e a lungo termine non a tempo, non ha bisogno di case popolari, di vestiti e neppure di cibo, (neppure di una messa col vescovo) di nessuna soluzione emergenziale. Queste persone necessitano di spazi e immobili pubblici (o di proprietà della Diocesi e delle Congregazioni, inutilizzati o sottoutilizzati) messi a disposizione di chi intende prendersi cura di loro creando percorsi di ritorno alla vita senza scadenza e che magari, consci che rimarranno in carico alla comunità per tutto il tempo della loro vita.
Ci sono momenti in cui la memoria di personaggi come Mario Tommasini, che ha sempre lottato per non lasciare indietro nessuno, diventa una responsabilità per chiunque abbia a cuore la sorte delle persone più fragili. Se, infatti, rimangono fuori “dalla soglia” coloro che non possono farsi carico della loro autodeterminazione, significa che c’è un problema, un problema che non può essere ignorato dalla politica, prima ancora che dai tecnici.
Credo che chiunque, dopo aver letto la premessa e il riassunto degli interventi, si chieda cosa fa la città per chi non è in grado di autodeterminarsi. I poveri tra i poveri, dopo aver ricevuto cibo, vestiti, pregato, partecipato a messe commemorative e essere accolti a termine nei dormitori (non sempre), sono condannati a rimanere per strada. Nessun servizio e nessuna associazione, (tranne una), ha soluzioni a lungo termine per chi è condannato alla vita in strada perpetua.
Qui la mia sollecitazione alla politica: verificare la qualità degli interventi e le modalità di accesso ai dormitori, alle docce e alle mense. Le informazioni che arrivano dai potenziali utenti – inclusi sia i cosiddetti “manipolatori di professione” e coloro che , poveri tra i poveri, rifiutano gli aiuti – non sono affatto confortanti e non rispecchiano la retorica con cui si esaltano le attività in città. Questo è ancora più grave perché si tratta di servizi finanziati con soldi pubblici e perché, come abbiamo detto, la politica progressista deve abbandonare la bandiera e concentrarsi realmente sui soggetti del suo interesse politico.
Concludo con due momenti di ilarità per la mia vecchia anima: l’introduzione dei biscotti per diabetici nei dormitori e la citazione di Don Virginio Colmegna fatta dal capogruppo Sandro Campanini. La prima, in un contesto di chi vive in strada, potrebbe apparire una buona pratica, quasi saggia. Credo faccia il pari con la proibizione, per un condannato a morte, di fumare prima dell’esecuzione perché il fumo fa male! Una pratica, insomma, leziosa e inutile: suona bene, ma credo sia meglio concentrarsi su altro. La seconda, la citazione del capogruppo PD, riflette un riflesso compulsivo costante dei devoti in politica nel sottolineare la presenza delle istituzioni vaticane in ogni intervento.
Chi conosce la straordinaria attività di Don Virginio Colmegna e le sue opere, che accolgono persone in difficoltà da quarant’anni, sa che il suo approccio non prevede un’accoglienza a lungo termine. Si affida ad altre strutture che a Milano non mancano. Anche a Milano non esistono realtà che si facciano carico di chi non è in grado di “autodeterminarsi” senza un limite di tempo.
Qualche settimana fa ho proposto all’Amministrazione Comunale di immaginare un progetto ambizioso, partendo da un accordo con le associazioni e organizzazioni che più usufruiscono di finanziamenti pubblici. La Cooperativa Leone Rosso, con 15,5 milioni di fatturato, il CIAC con oltre 5 milioni, Caritas Italiana con 69,8 milioni di contributi nel 2023 e la Comunità di Sant’Egidio con 29,45 milioni di entrate, sono le principali realtà che potrebbero essere coinvolte.
Credo che tutto sia importante, e importanti sono tutte le attività che vengono svolte in città, ma credo anche che Parma, l’Amministrazione di Parma, possa immaginare un progetto ambizioso per coloro che non sono in grado di autodeterminarsi. Un progetto tra l’Amministrazione e le associazioni o le organizzazioni citate, che con le risorse umane e finanziarie a loro disposizione potrebbero portarlo avanti, facendo un passo in più, avendo il coraggio di colmare le attuali lacune, che esistono e che vanno denunciate.
Questo sarebbe un passo importante per la nostra coscienza di progressisti, che, al di là delle bandiere, sanno guardare ai soggetti del proprio interesse politico e farsi carico delle loro esigenze, farsi corpo della loro disperazione non compresa, rafforzando così la nostra credibilità politica che oltre a trovare soluzioni per chi non può autodeterminarsi, è anche una proposta e una idea di sicurezza non sicuritaria e armata che inciderebbe sulla percezione di insicurezza dei cittadini. Una visione della sicurezza di sinistra, laica e di verità.
Ci sono momenti in cui la politica deve avere il coraggio di guardare oltre le proprie bandiere e concentrarsi sulle persone, sulle loro vite, sulle loro fragilità. Se la nostra città vuole davvero essere un modello di inclusione e giustizia sociale, non può accettare che chi non è in grado di autodeterminarsi venga lasciato indietro.
Servono scelte radicali, soluzioni strutturali, trasparenza e responsabilità. Perché la politica progressista non è solo un’idea: è l’impegno concreto di farsi corpo delle fragilità altrui, trasformando le parole in azioni e la retorica in diritti reali.
(11 marzo 2025)
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