di Giovanni Bertani #CronachedallOltremondo twitter@parmanotizie #Cultura
Gli eroi ai tempi degli Dei
“Il grande Gatsby”
di Francis Scott Fitzgerald.
Fitzgerald è uno degli Dei della letteratura mondiale, Jay Gatsby un eroe dal sogno puro e il sogno un’arma distruttiva.
Adesso direte che frequento persone strane, ma non conosco nessuno della mia generazione che abbia letto “Il grande Gatsby” nei suoi anni migliori senza aver desiderato di vivere, almeno per una lunga estate, come Jay Gatsby. Avevo poco più di vent’anni quando l’ho letto. Erano gli anni ’80, i “roaring eighties”. Un periodo che, per materialismo ed edonismo è stato molto simile ai “roaring twenties” in cui è ambientato il romanzo. Tutti allora desideravano auto sportive e potenti, ville con piscina, ragazze sui pattini che servivano martini al termine di giornate intense o all’inizio di nottate ammiccanti. “Il grande Gatsby” era l’icona simbolica delle promesse della vita, del futuro che ti aspettava se avevi un sogno per il quale affannarti.
La storia è nota. Jay Gatsby sogna di riconquistare la donna un tempo amata che lo ha lasciato per Tom Buchanan, un uomo tanto ricco quanto rozzo. Raggiunge il denaro con mezzi poco chiari, nasconde il proprio passato, esibisce la propria ricchezza nella speranza di abbagliarla, ma lei resta con Tom.
La storia è narrata da Nick Carraway in prima persona con una tecnica retrospettiva, senza ordine cronologico preciso. La frammentazione del tempo narrativo permette la ricostruzione dei personaggi nei diversi momenti e permette altresì l’utilizzo di uno stile a tratti poetico, con frequenti metafore e ripetizioni intenzionali.
Nick Carraway è molto diverso da Jay Gatsby. Ha una famiglia, “un clan”, e una storia di generazioni alle spalle, due ricchezze precluse a Jay Gatsby e questo fa di Nick un osservatore privilegiato e privo di pregiudizi. Gli dirà il padre: “Quando hai voglia di criticare qualcuno, ricorda solo che non tutti a questo mondo hanno avuto gli stessi vantaggi che hai avuto tu”. Lo stesso monito che ripeto con vago senso di frustrazione alle mie figlie.
Di Jay Gatsby, l’eroe tragico del romanzo, Nick ne parla in via indiretta, tramite sensazioni, odori, colori. Realtà e simbolo si intrecciano. La stessa immensa casa di Gatsby è sia simbolica che reale. Celebra la ricchezza di Gatsby durante le notti di festa e la sua solitudine quando, durante il giorno, si svuota. Di lui si sa poco, e anche lui è un personaggio simbolico che diventa, paradossalmente, reale solo quando si assenta per parlare al telefono. Sono gli altri, i parvenù che parlano di lui, spesso male anche se partecipano alle sue feste sibarite. Nick non lo giudica perché “non esprimere giudizi è motivo di infinita speranza”. Saranno i fatti a giudicare Gatsby per lui.
L’antagonista è Tom Buchanan, il marito di Daisy, l’indimenticata donna amata da Jay Gatsby, l’oggetto tangibile del sogno e il motore di tutta la vicenda. Tom, ricco almeno quanto Gatsby, non ha fatto nulla per meritare la ricchezza che possiede. Si tratta di un uomo alquanto rozzo, vagamente ignorante, cui unica qualità è l’abilità di giocare a polo. Non crede nella possibilità di acquisire ricchezza senza ereditarla perché è una possibilità che non gli appartiene; mantiene un’amante a New York, moglie di un meccanico che egli tratta con arroganza e superiorità. Mentre Gatsby cerca di migliorarsi per raggiungere il suo sogno, Tom è legato allo status quo e ai suoi privilegi ed è un personaggio monodimensionale, destinato a non cambiare mai. C’è un solo momento in cui sembra smarrirsi. In un solo pomeriggio scopre che Daisy ama ancora Gatsby e che la sua amante vuole andarsene. Sarà in quel momento che “Tom sentiva le frustate brucianti del panico”.
Nello sviluppo narrativo accade un fatto curioso. Nick appare istintivamente più vicino a Gatsby, sebbene per estrazione di gran lunga più vicino a Tom. La stessa cosa è accaduta a me, anche se, come Tom ho sempre desiderato arricchirmi grazie agli sforzi della mia famiglia che non per sforzi miei.
Quello che fa stare dalla parte di Gatsby, colui che ti chiama “vecchio mio” ritto nella veranda di casa al chiaro di luna con la mano alzata in un formale gesto di addio, è la sua straordinaria predisposizione alla speranza o il suo raro sorriso comprensivo, di eterno incoraggiamento e dotato di un irresistibile pregiudizio favorevole. Risulta invece difficile parteggiare per Tom Buchanan, dotato di una bocca piuttosto dura, un fare di superiorità e occhi arroganti che lo fanno sempre sembrare proteso in avanti e che appena incontra Nick gli dice “sono più forte e più uomo di te”.
La grandezza e il fascino di Jay Gatsby risiede nel sogno, che lo ha spinto per tutta la vita. Mente, è operoso ed è intelligente, ma al tempo stesso è vivo, partorito dal grembo del suo splendore senza uno scopo pratico. Le sue menzogne, la sua ricchezza, il suo darsi da fare hanno una purezza che lo distaccano dal materialismo del mondo in cui vive. Lo schianto contro il sogno lo riscatta, lo rende migliore rispetto a tutti coloro che gli girano intorno.
Viceversa Tom non è nulla di tutto questo. Non sogna, rappresenta qualcosa di stanco, inoperoso, ed è al tempo stesso la rappresentazione simbolica di tutto ciò che Gatsby avrebbe voluto essere il giorno in cui ha incontrato Daisy per la prima volta. Gatsby non lo sa, e in questo è un ingenuo, ma insegue un sogno irraggiungibile proprio perché non può appartenere al mondo dei Tom Buchanan, ne è troppo diverso. Neppure può appartenere al mondo dei Nick Carraway, non solo perché non ne ha l’eredità, ma perché Daisy, una donna frivola e volubile, esige una ricchezza che i Carraway non hanno e neppure desiderano.
Non a caso Nick Carraway capirà che la sua storia con la giovane Jordan Backer è priva di un futuro che abbia un senso, proprio perché appartengono a universi distanti. Non commetterà lo stesso errore di Jay Gatsby, abbandonerà l’Est e tornerà alla sua terra, all’Ovest.
Dopo un baratro di oltre trent’anni mi sono domandato quanti Jay Gatsby siano sopravvissuti ai “roaring eighties”. Ricordo i sorrisi, i volti, le pacche sulle spalle e ogni sogno di allora. Nulla di tutto ciò è rimasto. Se ne parla, come si parla di Jay Gatsby alle sue feste. Come nel romanzo sono sopravvissuti i parvenù e i Tom Buchanan. Con loro sono sopravvissute tutte le qualità di rozzezza e ignoranza; le gare a chi è più arrogante, più uomo, più forte, hanno preso il posto dei sogni.
Noi, come Jay Gatsby, non abbiamo mai capito che il sogno di cui ci siamo nutriti nei nostri anni migliori ci è sfuggito di mano, che nel momento più bello era già alle nostre spalle.
Ma “Domani correremo più veloci, stenderemo le braccia più in là…e un bel mattino…/ E così continuiamo a remare, barche contro corrente, risospinti senza tregua nel passato”.
(27 aprile 2020)
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